Sam Havadtoy e le sue opere-lucchetto: “non si sfugge, il tema è l’emigrazione”

Di Marta Calcagno Baldini

Categoria Oltre il sipario

Pubblicato Marzo 11, 2024

"Sam Havadtoy, autoritratto", 2023, credit@SamHavadtoy
"Sam Havadtoy, autoritratto", 2023, credit@SamHavadtoy

L'arte deve portare messaggi, ma senza creare shock. Quello è un retaggio del passato: "deve invitare al dialogo, come hanno fatto i grandi Maestri come Gesù, Budda, Mohamed".

Giovedì scorso, 7 marzo, primo pomeriggio, entro alla Fondazione Mudima, via Tadino 26, Sam Havadtoy è già lì a sistemare gli ultimi dettagli: la sera stessa apre Homage. Cultural Migrations/Migrazioni Culturali, a cura di Gino Di Maggio, terza mostra personale dell’artista anglo-ungherese nello spazio milanese, fino al 9 aprile ad ingresso libero. La prima opera che si incontra è il ritratto di un ragazzo biondo (Self Protrait), seduto a un tavolo con un foglio su cui sta per scrivere: “Nobody knows that I am gay”. L’impressione che restituisce il quadro è smagliante, un viso pieno di vita. “Qui è infatti quando avevo scoperto il mio orientamento sessuale” ribadisce l’artista. Quella che stiamo per affrontare è una mostra profondamente intima, una dichiarazione poetica che riguarda e il mondo di Havadtoy, artistico e umano.

Nato a Londra nel 1952 da genitori ungheresi, rimpatria con la famiglia a Budapest. A 19 anni scappa da Budapest per tornare nella capitale inglese. A venti si stabilisce negli Stati Uniti, dove nel 1978 fonda la Sam Havadtoy Gallery and Interior Design Studio: “In Ungheria durante il comunismo ti davano una carta d’identità come un passaporto -racconta-: sopra ci scrivevano se eri sposato, single, divorziato, bisessuale o omosessuale”. Ma si era costretti a dichiarare il proprio orientamento?  “Succedeva negli anni ’60-70, ora non è più così: lo scoprivano da soli, di certo nessuno lo andava a raccontare”. E come? “In ogni casa c’era un custode: lui scriveva dei report alla polizia. Se iniziava a dichiarare che notava visite di uomini in casa tua, deducevano che tu fossi gay e lo riportavano sul tuo documento”. Tra racconti di vita e testimonianze di un’epoca, eccoci nella prima sala, e si entra nel tema dell’esposizione. Che non è solo quello di raccontare l’intimità di Havadtoy, o meglio non solo la sua: l’operazione in corso da Mudima, infatti è una intelligente e profonda riflessione sul concetto di emigrazione e di come l’arte possa, debba, affrontare un tema tanto delicato.

Paradossalmente l’esposizione che stiamo visitando gli è stata commissionata dal National Museum di Budapest, “e io ne ero molto contento perché significa che i tempi iniziano a cambiare in Ungheria: oggi c’è un grande dibattito sul concetto di migrazione -dichiara convintamente-. Volevo fare una mostra molto gentile nel modo di trattare il concetto, ma molto provocatoria allo stesso tempo”.

Prima una serie di tele completamente sue: “Questo quadro recita: I only came to arrive, ‘sono venuto solo per arrivare’ (nel senso di fermarmi, stabilizzarmi, n.d.r.): vale per tutti i migranti”. Opere realizzate con forme di finestre che l’artista ha trovato abbandonate per strada: “Le ho conservate e fatte diventare qualcosa di speciale”. Oggetti che erano senz’anima che vengono rivalutati, un sogno per un migrante: una persona senza una fissa dimora che trova una identità. E l’uso del pizzo per riportarle a nuova luce: “in tutto il mio lavoro il pizzo è fondamentale, ha un senso di rivendicazione femminile: perché le donne non potevano praticare arte. Non potevano praticare arte, ma usavano lavoro a maglia, il pizzo o i ricami per esprimersi, quindi se avevano del tempo libero facevano cose di pizzo. Io uso il pizzo che è danneggiato. Se un uomo realizza un’opera, come ad esempio la gamba di un tavolo, o qualsiasi cosa, viene riparata: è considerata di valore. Ciò che invece crea una donna, viene buttata via. Questi concetti sono insegnamenti che ho ricevuto da Yoko Ono -aggiunge-: lei mi ha portato alle idee del femminismo. Io vengo dalla cultura maschilista dell’Ungheria”. E qui entra in gioco un’anima importante per Havadtoy, la moglie di John Lennon, che fu anche la sua fidanzata per un lungo periodo (dalla fine degli anni ’70 ai primi del 2000). Ma come, il primo momento della sua vita di cui mi ha raccontato è di quando ha scoperto la sua omosessualità, e ora mi dice che è stato fidanzato con Yoko Ono? “volevo essere la sua stampella dopo la morte di John Lennon, e un aiuto per loro figlio Sean”.

"Sam Havadtoy homage to Pablo Picasso", credit@SamHavadtoy
“Sam Havadtoy homage to Pablo Picasso”, credit@SamHavadtoy
Sam Havadtoy, "Homage to Pablo Picasso", 2023, lace and acrylic on board, 77x111cm.jpeg, credit @Sam Havadtoy
Sam Havadtoy, “Homage to Pablo Picasso”, 2023, lace and acrylic on board, 77x111cm.jpeg, credit @Sam Havadtoy

Si entra nel vivo delle migrazioni, le finestre che si sono aperte nella vita di Havadtoy, negli ambienti che ha frequentato e soprattutto degli artisti-amici che ne hanno fatto parte, che sono in questa mostra, di opere sue e non del tutto sue. Come Yoko Ono, anche Mark Rothko, Andy Warhol, Piet Mondrian, László Moholy-Nagy, Tamara de Lempicka e altri parte dell’esposizione, furono artisti senza una fissa dimora. Tutti emigrati, oltre che amici, e per questo li ha inclusi nella sua mostra rendendo loro omaggio: non ci sono lavori esposti di questi pittori, ma da Havadtoy riprodotti. “20 artisti, tutti giganti dell’arte del XX secolo, che sono, per un motivo o per l’altro, diventati migranti. Ma, ciò che è incredibile, è che quando lasciano il loro Paese, portano la propria cultura nel luogo dove arrivano. E quando due culture si incontrano, si verifica il miracolo: la loro arte diventa un collage delle due culture. E io ho proposto questo concetto al pubblico di Budapest: puoi abbracciarlo, o chiudere gli occhi”.

Sam Havadtoy, "Homage to Max Beckmann", 2023 - Lace and acrylic on board, 74x116cm, credit @SamHavadtoy
Sam Havadtoy, “Homage to Max Beckmann”, 2023 – Lace and acrylic on board, 74x116cm, credit @SamHavadtoy

Ecco perché tutti i quadri si possono aprire scorrendo la tela, come fosse ognuna una finestra con due ante, dipinte a loro volta da Havadtoy: “la tieni chiusa, quindi sei chiuso nel concetto di migrazione, ma vedi un mio quadro: e io sono stato in migrante”. Quasi una sorta di tranello: “Queste opere sono lucchetti di migranti: non si sfugge, il tema è quello. Ogni quadro è un lucchetto, non puoi scappare dal soggetto. Puoi essere aperto al tema, poco aperto, totalmente aperto: e comunque anche io sono un migrante, e le parti scorrevoli sono dipinte da me: vedrai comunque un’opera di un artista migrante.”

Non è finita: affianco ad ognuno di questi quadri-scorrevoli Havadtoy ha ricreato l’opera dell’artista che ha copiato, ma più in grande. “L’ho fatta due volte per il mio rispetto nei confronti degli artisti: ciascuno ha la sua storia. La copia più in grande del quadro che ho ricreato è un gesto di rispetto verso gli artisti che ho scelto: hanno la loro storia attaccata. E la loro memoria è trasmessa tramite la loro arte. Quindi è un testo: e nella mia opera la copia”.

Più di un anno di lavoro per realizzare ogni coppia di quadri: “ho scelto ogni opera in base alle storie di vita degli artisti. Li ho studiati per selezionare quale rifare. Ad esempio questa -dice indicando il quadro Homage to Max Beckmann-, è la moglie di Beckmann appunto: un ritratto in cui era sorridente. Poi arriva Hitler al potere, e la trasforma in triste”. Victor Vasarely, Marc Chagall, Alexej von Jawlensky, sono tutti qui ora: “mi sento vicino a questi artisti, sono la mia famiglia”. E un’aggiunta importante: “I quadri si possono comprare, ma devono essere tutti in mostra insieme. È tuo, ma non lo puoi avere. Ora non puoi averlo. Deve girare. Voglio che ora vada in America, contro l’idea di Donald Trump: questa mostra ha un messaggio da portare. Non mi sento schiacciato dalla responsabilità di continuare la memoria di questi artisti migranti: un giorno a Yoko Ono un giornalista chiese ‘non ti senti male con tutte queste ombre sulla testa?’. ‘No -rispose-. Mi sento molto rassicurata: mi proteggono dal sole’. E così è per me: non vorrei cambiare neanche un giorno della mia vita”. Come vede il linguaggio meramente estetico di certi artisti contemporanei?  “Ci sono sempre stati, se non hanno veramente qualcosa da dire sarà il tempo a dimenticarli”. Un’arte responsabile, quella che viene promossa in questa mostra: “Di Max Ernst ho deciso di ricreare L’elefante di Célebes perché l’artista lo dipinse dopo che Hitler prese il potere. E’ un elefante che sembra una macchina da guerra e sta venendo per distruggere la civiltà: purtroppo il tema è ancora molto attuale. Quando l’ho scelto non c’era ancora la guerra in Ucraina. Ora c’è, oltre a quella, anche quella in Palestina, in Sudan… lui ha dipinto questo elefante di guerra come un avvertimento a non essere guerrafondai”. C’è anche Picasso: “ha lasciato la Spagna che era un ragazzo. Va in Francia e ci vive 40 anni. Quando Franco prende il potere è disgustato e vuole rinunciare alla sua nazionalità spagnola: vorrebbe quella francese. Ma non gli viene concessa perché è comunista. Quindi c’è sempre una ragione per escludere. E anche per generalizzare, come fa chi chiama tutti i migranti criminali. Per me disgustoso”. E continua: “quando nel 1950 abbiamo avuto la rivoluzione in Ungheria, dopo molti sono scappati. Anche gente che era in prigione: tutti sono emigrati in Inghilterra, Germania, varie nazioni. E certo, alcuni erano criminali, ma non tutti”.

Sam Havadtoy, Homage to Mark Rothko, 2023 - Lace and acrylic on board, 121x161cm.jpeg, credit @SamHavadtoy
Sam Havadtoy, Homage to Mark Rothko, 2023 – Lace and acrylic on board, 121x161cm.jpeg, credit @SamHavadtoy

E si torna alla ragione precisa di questa mostra: “l’arte non può cambiare il mondo, ma può portare alla conversazione, al dibattito. Deve portare messaggi quando hai da dire qualcosa. E in un bel modo: il messaggio non deve shockare, sconvolgere. Quello è un po’ un retaggio del passato. Bisogna dire qualcosa di intelligente senza insultare le persone”. E aggiunge, addirittura: “che poi non è detto che io abbia ragione: bisogna incitare al dialogo, mettere sul tavolo di argomenti. E questa è l’origine della democrazia”. Non un artista-demiurgo, quindi? “Non un dio, un Maestro: l’arte deve trovare il modo di far star meglio tutti. Non credo ci sia una sola verità: anche i grandi, come Gesù, Mohamed, Budda… loro invitavano al dialogo, erano Maestri. Pensiamo anche all’Ultima Cena: è una discussione su alcune possibilità. E Lui sapeva già la risposta. Ma quella è la bellezza: nell’arte e il dialogo”.

INFO. “SAM HAVADTOY. HOMAGE. Cultural Migrations / migrazioni culturali”, a cura di Gino Di Maggio

Fondazione Mudima, via Alessandro Tadino 26, Milano

Apertura al pubblico 8 marzo – 9 aprile

Ingresso libero

Orari: dal lunedì al venerdì 11.00-13.00 / 14.00-17.30

Sabato e domenica chiuso

info@mudima.net

www.mudima.net

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