La fotografia che svela scenari di guerra: Livio Senigalliesi spiega le sue immagini in mostra al Museo Diocesano, e la sua vita. Per scelta passata al fronte
Di Marta Calcagno BaldiniCategoria Oltre il sipario
Pubblicato Novembre 26, 2022
Il fotografo di guerra è un testimone di un teatro degli orrori o un protagonista che si rende eroe di ciò che documenta? spesso il confine è labile. Ma non per Livio Senigalliesi, 25 conflitti in 30 anni di lavoro, classe 1956, milanese per scelta osservatore silenzioso. "Bisogna leggere 'Davanti al dolore degli altri' di…
Il fotografo di guerra è un testimone di un teatro degli orrori o un protagonista che si rende eroe di ciò che documenta? spesso il confine è labile. Ma non per Livio Senigalliesi, 25 conflitti in 30 anni di lavoro, classe 1956, milanese per scelta osservatore silenzioso. “Bisogna leggere ‘Davanti al dolore degli altri’ di Susan Sontag” ripeterà spesso durante l’intervista. Lo abbiamo incontrato al Museo Diocesano, dove ieri ha inaugurato la sua personale “Diario dal fronte”, fino all’8 gennaio, a cura di Barbara Silbe giornalista, critica, fotografa, photo editor e ricercatrice.
In mostra si trova una selezione di 50 fotografie, raccolte in numerosi scenari di guerra dal Medio Oriente al Kurdistan, dal Kuwait all’Unione Sovietica e l’Est Europa fino all’Africa: “Non ho staccato mai per 40 anni -racconta-. Sono andato avanti come attratto da un file rouge che sta più nel valore storico della documentazione che dalla fotografia stessa”. E rivela, a sorpresa: “Io non sono un appassionato di fotografia: uso la macchina come uno strumento. Mi interessa vivere la storia mentre accade. Attraversando le sue contraddizioni, vivendo nelle prime linee, andando da una parte e dall’altra”. Ogni sua parola, davanti a immagini di soldati, di carri armati, di funerali di bambini, di palazzi distrutti, o l’approfondimento sul Vietnam sugli effetti sulle popolazioni locali dell’Agent Orange, il defoliante alla diossina nebulizzato dagli americani sulle zone di foresta dove i Vietcong si annidavano, conferma che sono fotografie che vengono anzitutto dal rispetto della situazione in cui si trova: non c’è un giudizio e non c’è gusto sadico per l’orrore e la sofferenza. Si nota che ogni situazione è colta con una sensibilità data dall’approfondimento: “La complessità di una guerra o di un assedio come quello ad esempio di Sarajevo si può capire vivendolo da parte dell’assediato e dell’assediante -spiega ancora Senigalliesi-. Spesso anche l’assediante vive le stesse tragedie dell’assediato”.
Durante l’assedio di Sarajevo, dal 1992 al 1996, i giornalisti stavano nell’Holiday Inn, l’hotel diventato rifugio di -quasi- tutti gli inviati: “Io arrivavo lì ogni tanto, schivando le pallottole, perché c’era l’unico telefono satellitare. Erano tutti in quell’albergo perché c’erano i generatori di corrente che andavano a benzina. Avevano il caldo e la luce. Quando arrivavano quelli come me in albergo venivano a farmi le domande. A volte raccontavo ciò che vivevo e vedevo, altre no. Nel 1991 sono partito commissionato dal settimanale Europeo per la ex Jugoslavia e tornai a casa nel 2000. Mi muovevo come si muoveva il fronte e imparavo dalla gente, vivendoci insieme”.
Un giornalismo che già allora era un’eccezione, e infatti nel nostro Paese non sempre era capito. Troppo indipendente, Senigalliesi: “Bisogna che finalmente sia conosciuto anche in Italia” spiega la Silbe, svelando una caratteristica fondamentale del fotografo milanese: i suoi reportage sono pubblicati più spesso sui più importanti giornali stranieri (El Mundo, El Pais, The Guardian, The Indipendent, Le monde, Le Nouvel Observateur, Die Welt, Der Spiegel, fino al Los Angeles Times o Time Magazine). In italia soprattutto “Epoca” e “L’Europeo” . Ma a lui non importava, il suo modo di lavorare è sempre stato lo stesso: “ ‘Livio, voglio la copertina!’ mi dicevano i direttori prima che partissi. E io andavo: non si può essere un testimone senza partecipare”.
E bisogna sapersi muovere, non ci si può improvvisare: “La prima cosa da imparare è la lingua: è determinante per capire cosa ti accade intorno, o trattare con i soldati che ti vogliono uccidere. Non ci si può improvvisare inviati: prima di partire bisogna studiare e conoscere il paese in cui si sta andando- e continua-. Sono stato anche davanti a un plotone di esecuzione, dovevo essere fucilato. Poi solo per il fatto che parlavo il serbo li ho convinti a chiamare via radio il loro capo. Che gli ha intimato di lasciarmi andare, che avevo tutti gli accrediti previsti per un reporter di guerra. I miei lanzichenecchi mi avevano già detto ‘togliti le scarpe che non ti servono più’. Io stavo già con le gambe dentro un fiume. Eravamo in 11 in fila e alla fine nel fango ho raccattato soldi e le macchine fotografiche che mi volevano rubare e mi sono salvato”. E conclude: “gli altri 10 però li hanno fucilati. Capisci che poi torni a casa con un dolore e un senso di colpa che ti perseguitano: perché io no. Mi hanno messo tante volte il coltello alla gola. Mi hanno rubato tutto, i rullini: un mese di lavoro. Li buttavano nel fuoco. Io non mollavo. Ero una lastra di acciaio. Solo facendolo ho scoperto che ero fatto per questo mestiere. Tanti miei colleghi hanno mollato, o hanno iniziato a drogarsi, o bere. Bere è istintivo. Io sempre tutto sotto controllo, ma poi esplodi”.
Questo è il momento della rielaborazione. Parallelamente alla mostra, Senigallesi ha già iniziato un progetto didattico con i ragazzi: “sono un giornalista che documenta la guerra e va nelle scuole per parlare di Pace”. Le esperienze di foto-giornalismo di Senigalliesi sono raccolte anche nel libro “Diario dal fronte”, acquistabile su it.blurb.com (33,53 euro). Il suo sistema di lavoro va aldilà del reportage: “gli antropologi l’hanno chiamata ‘documentazione partecipata’ ” conclude.
Info: Museo Diocesano Carlo Maria Martini, piazza Sant’Eustorgio 3
Orari: martedì- domenica, 10-18; chiuso lunedì
T. +39 02 89420019; www.chiostrisanteustorgio.it