Dal testo di Katharina Volckmer, autrice tedesca, al Parenti i simboli attualizzano la Storia

Di Marta Calcagno Baldini

Categoria Recensioni

Pubblicato Ottobre 17, 2022

Recensione di "L'appuntamento, ossia la storia di un cazzo ebreo", al Teatro Franco Parenti dal 20 settembre al 16 ottobre. Spettacolo che fa riflettere e soprattutto convince per l'interpretazione di Marta Pizzigallo, protagonista

“L’appuntamento ossia la storia di un cazzo ebreo”, produzione del Teatro Franco Parenti che qui ha debuttato ieri, mercoledì 21 settembre, e dove resta in scena fino al 16 ottobre, è uno spettacolo difficile, anzitutto da recitare. Già il titolo è enigmatico, come poi la scena in cui si svolge, di Fabio Cherstich, anche regista: siamo in una sala operatoria, accennata, simbolica ed evidente nello stesso tempo come spesso accade in teatro. La protagonista, Marta Pizzigallo attrice pugliese, di Taranto, classe 1984, diplomata alla Scuola di Teatro di Bologna, premio Hystrio nel 2013 e nel cast delle prime due stagioni della serie “La compagnia del Cigno”, è una giovane tedesca di oggi, esattamente come l’autrice del romanzo da cui lo spettacolo è tratto, Katharina Volckmer, “Un cazzo ebreo” (La nave di Teseo). La giovane donna si trova quindi dal medico, il dottor Seligman, per ricevere un’operazione chirurgica: vuole diventare un uomo, e il suo organo genitale maschile dev’essere appartenuto ad una persona ebrea.

Uno spettacolo che è una riflessione attuale su come viene interpretato oggi il nazismo in Germania, dove “il nostro unico modo di farci perdonare da voi è stato trasformarvi in creature magiche, dotate di una polverina miracolosa che esala da ogni poro, intelligenza superiore, nomi curiosi e biografie infinitamente più interessanti”. Con le parole della Volckmer, la Pizzigallo denuncia apertamente l’essere “istericamente non razzisti in qualunque circostanza, e pronti a negare qualsiasi differenza” dei tedeschi, eppure senza aver “mai restituito agli ebrei lo status di esseri umani né permesso che interferissero con la nostra interpretazione della storia, fino ad arrivare a quel triste cumulo di pietre che è stato messo a Berlino a commemorare l’Olocausto”. Quindi il gesto della protagonista è un simbolo di fratellanza o un gesto di facciata? A restituirci la verità che la guida è la sua gestualità davvero sofferente, opera di grande abilità attoriale: le parole escono sicure e angosciate, e contempraneamente il corpo si muove tremante ed è portato ad assumere posizioni instabili sulla sedia del medico con il divaricatore per le gambe. Perché la protagonista si sta mettendo in discussione, davvero: come appartenente alla cultura tedesca e, in secondo piano, anche nel suo essere nata femmina. Chi può dare delle categorie? Chi conosce la verità? Uno spettacolo in cui parola, corpo e scena sono ugualmente pregnanti per lanciare un monito e un avvertimento: a che la complessità dell’essere umano e l’evolversi del tempo non ci facciano perdere di vista l’idea che i punti di vista sono sempre molteplici, ricordando la tragica capacità che abbiamo di autodistruggerci.

Altri articoli relazionati