Partiamo con Umberto Angelini: tra la Triennale e il Teatro Grande di Brescia racconta a Milanoateatro la sua chiave per gestire una sala: “Costruire una relazione tra pubblico e artisti” 

Di Marta Calcagno Baldini

Categoria Interviste, Interviste ai direttori

Pubblicato Gennaio 27, 2023

E anticipa Fog, il festival di Performing Art che sta per partire alla Triennale: "ormai i generi teatrali sono molteplici, in Italia si è troppo concentrati solo sulla prosa"

Milanoateatro inizia a svolgere una serie di interviste ai direttori dei teatri milanesi. Sono loro a determinare la linea delle proposte di sala in sala, e hanno un occhio speciale e allargato sulle compagnie e gli spettacoli che possono le varie sale produrre o ospitare.

Il primo è Umberto Angelini, classe 1968, marchigiano di Ascoli Piceno adottato da Milano e soprattutto ormai dalla Triennale, del cui Teatro è direttore artistico dal 2017 ed è membro del comitato scientifico di Triennale Milano. Nel contempo è anche sovrintendente e direttore artistico della Fondazione del Teatro Grande di Brescia, posizioni ottenute dopo decenni di lavoro nell’ambito delle performing art (basti pensare che dal 2003 al 2015 è Direttore artistico di Uovo performing arts festival, progetto internazionale sullo spettacolo contemporaneo). Ci parlerà anche di Fogil festival di Performing Art alla sua VI edizione e che sta per partire a Milano alla Triennale, ma anche al Teatro Out Off, l’Hangar Bicocca, Base Milano, la Casa degli Artisti e altri spazi: 40 appuntamenti dall’11 febbraio all’11 maggio, per quasi 40 artisti e compagnie da 19 paesi, 12 produzioni e coproduzioni targate Fog, 8 prime assolute, 15 prime nazionali, 7 concerti e dj set per un totale di 93 repliche (www.triennale.org).

Come si svolge il ruolo di Direttore Artistico di Triennale Milano e membro del comitato scientifico di Triennale Milano? Che differenze ci sono rispetto al ruolo di direttore artistico del Teatro Grande?

Sono ruoli diversi, ma hanno anche affinità. Il Grande è un teatro d’opera, con una programmazione prevalentemente musicale, di balletto e danza contemporanea. Anche a Milano propongo danza, ma con una connotazione esclusivamente contemporanea. Come la musica: sperimentale e molto spesso elettronica. Questa diversità di programmazione è direttamente collegata alla identità e alla storia stessa dei due teatri (ndr il Grande sorge nello stesso luogo dove nel 1664 si aprì il primo teatro di Brescia. L’attuale sala fu progettata da Luigi Canonica, architetto milanese, nel 1810. Il Triennale Milano Teatro, ex Teatro dell’Arte, è del 1933). Ciò che mi interessa è costruire una relazione tra pubblico e artisti indipendentemente dal teatro che dirigo.

Ed è cambiato il pubblico dopo la pandemia?

Non tanto il numero o il tipo di spettatore. Ciò che è diverso è il modo con cui oggi si va a teatro: ci sono meno abbonati, e i biglietti si vendono l’ultima settimana molto più di prima. Un segno dell’incertezza. Ma né a Milano né a Brescia abbiamo riscontrato una riduzione di presenze in sala rispetto al 2019. Anzi, a Milano abbiamo una crescita rispetto a 4 anni fa.

Perché secondo lei dopo il covid i teatri sono pieni e i cinema vuoti?

È un grande dispiacere che le sale cinematografiche abbiano avuto un sensibile calo degli spettatori. Credo sia dovuto all’esplosione delle piattaforme e alla forza che il teatro ha nella sua relazione unica con l’artista sul palcoscenico.

Come affronta il Teatro dell’arte il tema della disabilità? È accessibile?

Il Triennale Teatro è l’unico in Italia che sovratitola ogni spettacolo in doppia lingua: italiano per chi ha deficit uditivi e inglese per gli stranieri. Oltre ad essere accessibile negli spazi per le persone con disabilità.

Passiamo ora a Fog, il Festival di Performing Art che giunge alla VI edizione nel 2023 e che si terrà quest’anno: una rassegna che, usando le parole con cui si auto-descrive, “rifiuta le etichette di stile artistico”. Eppure la ‘mission’ del festival è di “restituire la complessità del presente che stiamo vivendo”. Il fatto che si riesca a rendere l’oggi senza avere etichette di genere indica secondo lei che anche il nostro presente ha sempre meno riferimenti e etichette? E quindi la performance arriverà a diventare prevalente rispetto al teatro di prosa?

Bella domanda. Io credo che il teatro di prosa fatto bene andrà sempre avanti. A me, come programmatore e spettatore, però interessa meno pur riconoscendone ovviamente il valore. Quella a cui guardo e che presento in Triennale è un’arte più attenta al corpo e al linguaggio visivo, senza preoccuparmi della distinzione di generi: artiste e artisti meno classificabili, in uno spazio rivolto a tutti i linguaggi. Eppure sono consapevole che questo stile di programmazione è oggi più europeo che italiano. Guardando alla maggior parte dei teatri nel nostro Paese non credo ci sia la possibilità imminente che il teatro performativo prevalga su quello di prosa, anzi: il sistema teatrale italiano è strutturato praticamente solo per la prosa. Scelta legittima ma ritengo che sarebbe necessario e giusto garantire una più equa distribuzione delle risorse e garantire agli spettatori di poter assistere a spettacoli nella globalità di generi oggi esistenti.

A Fog sono presenti 19 paesi dal Mondo: i lavori ci mostrano una Terra globalizzata e quindi ci si sente sempre con riferimenti comuni a tutti, o ci portano ad esplorare di volta in volta usanze e specificità delle varie nazioni che partecipano?

Sono valide entrambe le cose. Ci sono spettacoli come “Limbo”, di Victor de Oliveira (15 e 16 febbraio) che è un’esplorazione della stessa famiglia dell’artista: i suoi nonni sono bianchi ed europei, le sue nonne mozambicane e indiane. I suoi bisnonni erano ebrei portoghesi, makonde mozambicani, indiani di Goa e cinesi di Canton. Oliveira compone un mosaico di ricordi personali per interrogarsi sulle origini della propria famiglia. Così anche “Amazonia 2040” di Martha Hincapiè Charry, artista colombiana, che il 28-29 marzo in Triennale si interroga sullo stato della foresta amazzonica tra 20 anni. “Leggere Lolita a Teheran” (19 febbraio) di Cinzia Spanò e Roberta Di Mario è un lavoro sul libro omonimo di Azar Nafisi, scrittrice iraniana. Il suo romanzo è un bestseller tradotto in 32 lingue. La vicenda narra la vera storia dell’autrice che dovette lasciare la sua università per le pressioni della Repubblica islamica. Le due artiste italiane, attrice la Spanò e pianista compositrice la Di Mario, propongono un reading di brani del romanzo per denunciare la drammatica situazione iraniana e ricordare che la letteratura e l’arte possono essere forme di resistenza. Restano invece nella classicità i Motus, ancora italiani, che dal 28 febbraio al I marzo proporranno “Of the Nightingale/Envy the Fate”, in cui la compagnia di confronta con l’Iliade e con il potere profetico di Cassandra. E resta nella sua cultura, questa volta giapponese, Kuro Tanino, artista nipponico per la prima volta in Italia. Il 10 e 11 maggio presenta “Fortess of Smile”, uno spaccato voyeristico su de piccoli appartamenti giapponesi adiacenti. In uno, alcuni vivaci pescatori si incontrano per bere e divertirsi. Nell’altro un’anziana signora aiutata dal figlio e la nipote fa i conti con la vecchiaia e la solitudine. Seguendo queste vite normali ci accorgeremo che qualcosa cambierà. Uno spettacolo poetico e sospeso in situazioni surreali.  

Romeo Castellucci e il suo centenario in Triennale. Perché avete scelto lui? Cosa porterà a Fog?

Castellucci è un artista meraviglioso ed è il grand invitè di Triennale Milano per il quadriennio 2021-2024. A Fog il 6 maggio in prima assoluta presenta un progetto site specific dedicato alla celebrazione dei 100 anni della Triennale (nata nel 1923 a Monza come Biennale delle arti decorative). I dettagli sull’appuntamento verranno comunicati nelle prossime settimane.

Meredith Monk quest’anno, Laurie Anderson l’anno scorso. Tra le performing artists famose mancano Marina Abramovic e Vanessa Beecroft. Perché secondo lei la donna performer raggiunge un successo e una notorietà mondiale? La performance è un genere “femminista”, cioè che incarna la libertà espressiva della donna?

No, non legherei la performance al femminismo in maniera automatica. Anche se illustri artiste hanno prodotti lavori straordinari nel campo della performance. A noi interessa indagare la relazione degli artisti con il corpo e lo spazio. Fog non presenta, ad esempio, lavori di Body Art come la conosciamo nella sua espressione storica, ma esploriamo la performance come forma teatrale e musicale.

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