Attori e spettatori imprigionati in un salotto come i personaggi di Checov costretti alla solitudine: lo ‘Zio Vanja’ per la regia di Cajafa

Di Marta Calcagno Baldini

Categoria Ciapa'l tram

Pubblicato Novembre 18, 2022

Niente di meglio che vederlo recitato in un salotto, “Zio Vanja”, dramma del 1897/99 che, come sempre in Cechov, racconta l’impotenza e la vanità dell’illusione dell’uomo davanti ai sogni e i progetti. Solo il 12, 17, 18 e 19 novembre si può assistere, nel Teatro Laboratorio di via Monte Suello 9 (zona Argonne/Città Studi, info e prenotazioni rcprogetti@icloud.com), al…

Niente di meglio che vederlo recitato in un salotto, “Zio Vanja”, dramma del 1897/99 che, come sempre in Cechov, racconta l’impotenza e la vanità dell’illusione dell’uomo davanti ai sogni e i progetti. Solo il 12, 17, 18 e 19 novembre si può assisterenel Teatro Laboratorio di via Monte Suello 9 (zona Argonne/Città Studi, info e prenotazioni rcprogetti@icloud.com), al dramma del protagonista, zio Vanja appunto, quando apprende la decisione della famiglia di vendere la proprietà a cui aveva dedicato una vita intera. Cerca per un attimo di ribellarsi, ma risulta del tutto superfluo il suo atto: un secondo dopo viene inghiottito dai ritmi lenti e dai silenzi che sovrastano la casa.

Fulvio Bertoldi, Elisabetta Carmignani, Cinzia Damassa, Eva Legnaro, Enrico Olivetti e Cristina Vacchini sono i sei attori diretti da Roberto Cajafa in una sala che si trova in un seminterrato di un palazzo a Milano. Una situazione “off”, ma che non ricerca la provocazione nell’estremo. Semmai proprio il fatto che questo spazio somigli ad una casa aumenta l’effetto di sensazione di soffocamento voluta e ricercata dall’autore russo: non c’è bisogno di andare lontano e compiere malefatte per sentirsi prigionieri. Basta non poter partire, mai.

Una regia pulita, che probabilmente cerca l’assenza di azioni, la lentezza dei movimenti e delle parole degli attori per investire gli spettatori di tutto il tempo morto che hanno a disposizione i personaggi nella gelida campagna russa: nessuno è utile, nessuno ha veramente un progetto. Solo il dottor Astrov, sopraggiunto nella tenuta del professor Serebrijakov per curarlo, per più di metà spettacolo sembrerebbe sul punto di partire, lui che può, ma rimanda continuamente. Perché anch’egli è un’anima morta: chilometri a cavallo nella neve, per arrivare poi dove. E non è forse un caso che il personaggio del medico sia efficacemente interpretato da una donna, Cinzia Damassa: la sua identità è talmente smarrita che può solo essere recitata con enfasi, interpretare se stesso. Come la bella Cristina Vacchini, Elena, la giovane seconda moglie di Serebrijakov, che è amata da zio Vanja e da Astrov, che ricambia. Eppure non si rifiuta di partire per sempre dalla tenuta con Serebrijakov. Un gruppo di persone sole, che vivono in una condizione di impotenza perenne. E la forza di questo testo, che lo spettacolo mette bene in evidenza, è che la soluzione non c’è.

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